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la legge del divieto (1° parte) PDF Stampa E-mail
Scritto da Geo Portaluppi - foto di Carlo Pollaci   
Lunedì 17 Gennaio 2011 20:00

 


Alte mura a volere racchiudere il cielo, riducendolo e ricucendolo in spazi sempre più angusti. La strada, in realtà un vicolo, è occupata da auto che intralciano notevolmente la viabilità, quasi ad affermare: "Di qui non si passa..." un divieto scritto senza punto esclamativo alla fine della frase, ma con puntini di sospensione, come se non si volesse dare un eccessivo peso alla proibizione, essendo una cosa naturale porre divieti. La cultura del divieto è contagiosa. Sotto la finestra semi aperta, munita di ringhiera in ferro dalle bacchette diritte e strette si legge: "NO GELMINI" e non si sa se alla fine c'è il tanto caro e abusato punto esclamativo, è finita la parte liscia del muro del liceo scientifico Benedetto Croce, quella parte scrivibile.

Tu poni un divieto a me e io ne pongo uno a te. È così che funziona la cultura del divieto, basata essenzialmente sul segreto. La predominate blu della foto, spennellata con attenta e accorta cromaticità, ha cancellato la frizzante aria azzurra e cristallina, probabilmente questa tonalità è anch’essa simbolo di un divieto, e oltre a ricordarci una fredda superficie metallica, come quella delle auto blu in mezzo alla via, ci rimanda, facendoci scivolare sempre più velocemente, nel passato, ai tempi in cui si andava a scuola e si passavano ore seduti nei banchi, i capi stanchi appoggiati sul palmo di una mano incollata a un braccio piegato al gomito, la testa circondata dalle parole del professore o della professoressa di turno, parole che ronzavano in orbita extra veicolare a permeare l'aria respirabile contenuta nell'aula. Di aria libera ne restava in tal siffatta maniera assai poca, tutto sommato insufficiente. E lo sguardo, e la mente, correvano al di fuori dei vetri della finestra, cercando sapori diversi dalla solita minestra che ti scodellavano sempre uguale da decine d’anni. Fuori dall’aula lo sguardo andava a sbattere contro impenetrabili mura altissime, erette a circoscrivere l’azzurro del cielo, a rimpicciolirlo, e non veniva neppure garantita quella fetta di cielo delimitata a forma di “V”, come si vede nella parte alta della foto, vestita di un bianco lattiginoso, un’area che forse sta a significare un sogno di “Vittoria”. Noi non avevamo la vittoria a portata di mano, non esisteva nemmeno il suo concetto, il banco ti andava ogni giorno sempre più stretto, ma ti adattavi, dovevi, altrimenti soffrivi più del dovuto, più del sopportabile. Ti si diceva nel quotidiano inanellarsi dei giorni: “Zitto tu, che non capisci niente”. Per fortuna c’erano loro che capivano tutto e magari te lo spiegavano, alla loro maniera, una maniera congeniata in modo che non si capisse nulla, e in questo modo veniva mantenuto e garantito l’equilibrio di sempre, senza sbalzi, senza impennate, nel continuo “non capire niente”. E se quel giorno non eri stato interrogato, quel giorno veniva considerato un giorno fortunato. Non erano tempi idilliaci, erano i tempi dello “Zitto tu, che non capisci niente”. Quando il professore parlava poteva capitare, più spesso di quello che sarebbe stato lecito supporre, che si inceppava, non trovava la parola giusta, quella che si collocava a colmare la sequenza logica della frase rimasta interrotta. Io la parola l’avevo nel mio salvadanaio, e senza ostentazione la dicevo, il professore restava meravigliato che fosse giunta la parola giusta dal popolo dei “…che non capisci niente”, e i compagni ridevano, giacché era una cosa divertente, sentire lo scolaro che suggerisce al professore e, democraticamente, anche al supplente. All’apparenza non accadeva niente. Erano tempi in cui non accadeva mai niente, almeno non in Italia. Ma a una parola poi accadeva che se ne aggiungeva un’altra, e poi un’altra ancora, e si fondevano tra loro, per nucleo sintesi, e l’insieme così ottenuto diventava sempre più pesante, perfino pressante. Alla fine si formò un’onda pensante. I primi scossoni giunsero da Parigi. Lì i cieli sono ineluttabilmente bigi di giorno, e invece neri, nel serale dopo cena. Imbandire la tavola con la solita tovaglia era una greve pena. Meglio rischiarare i cieli con bottiglie incendiarie, in luogo di bottiglie di frizzante gazzosa. Quest’ultima la stappi e l’effervescenza finisce di botto, l’altra bottiglia la lanci e poi scappi, poiché la polizia non sta mai con le mani in mano. Scappi lontano, ma poi torni sui tuoi passi: sta arrivando il Sessantotto.
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Ultimo aggiornamento Martedì 15 Febbraio 2011 09:56
 
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