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Per i docenti

LAURENT GAUDÉ
LA TIGRE BLU DELL’EUFRATE
Traduzione di Simona Polvani
La traduttrice e l'autore sono membri della SACD - Société des auteurs et compositeurs
dramatiques/France – www.sacd.fr
Il testo mette di fronte, nel momento della sua fine, Alessandro Magno e il dio dei morti: Alessandro lo incanta raccontandogli la storia della sua vita e delle sue imprese con lo scopo concreto di essere esaudito nel suo ultimo desiderio.


I
Silenzio.
Perché battete i piedi con impazienza, commentando ogni mio gesto, scrutando i lineamenti del mio viso nel più piccolo particolare, frugando persino nelle mie feci per leggervi qualche presagio?
Sì, muoio.
presto sarò sotterrato.
Vi ascolto parlare senza tregua dell’evoluzione della mia malattia,
il brusìo, che nasce tenue tra le lenzuola del mio letto, senza tregua cresce nei corridoi del palazzo e presto uscirà dalla porta grande e si riverserà come un fiume di fango nei vicoli della città.
Un’ombra enorme copre il cielo del mio impero.
Un’ombra dice che il re è malato e sta per morire.
Muoio di fame, di sete, di desiderio.
Mi sentite, tutti voi che volete conoscere l'esatta natura del mio male,
È di fame che sto per morire.
Chi tra voi può capirlo?
Lasciatemi.
Non mi toccate.
Non circondatemi più con le vostre attenzioni,
Non voglio né i vostri unguenti né i vostri mormorii.
Uscite da questa camera.
Non entri più nessuno.
Che Escano le donne
che assistono il mio corpo malato,
Escano le mie trecentosessantasei spose
Che escano,
Le ho fatte mie all’epoca del mio splendore.
Volevo una donna al giorno
per non vedere mai due volte lo stesso viso.
Ma non sono più quello che ero.
Diteglielo.
Nessuno venga più a baciarmi la mano.
Che nessuno venga più a tentare su di me nuovi rimedi per darmi sollievo.
Sia sigillata questa porta
Lasciatemi in pace.
Ho un invitato d'eccezione
voglio essere tutto per lui.
Fuori.
Ho chiuso con il mondo.
Fuori,
Fuori!
Ecco.
Adesso siamo soli, tu ed io.
Guardo la tua ombra sul muro,
La tua ombra che cresce.
Non ho paura,
Ti invito.
Sii mio ospite,
Avvicinati,
Avvicinati, so chi sei.
Sto morendo.
Presto mi inviterai nel tuo palazzo.
Non voglio essere giudicato con l'auna della tua bilancia.
Voglio di più.
Vieni,
Avvicinati.
Ti chiedi cosa io desideri
E perché parli.
Ti chiedi come mai ti veda e per quale miracolo tu mi senta.
È la prima volta che senti la voce di un uomo?
Da sempre, coloro che vengono da te sono muti,
Mai nessuno ha pronunciato una parola.
mai un uomo è venuto da te.
Solo cadaveri,
Corpi vuoti nei quali soffia il vento.
Oggi tu vieni per rapirmi come hai rapito tutti gli altri
Non aver paura,
avvicinati di più.
Ti vedo male, come una forma indistinta
sulle pareti bianche della stanza.
Sarò paziente.
Alessandro è colui che vedrà la morte da vivo.
Ti racconterò chi sono stato
E tu berrai ogni mia parola,
Sì, Alessandro farà impallidire il dio dei morti,
prima, per lo stupore,
poi, per l'estasi.
II
Alla mia nascita, nell’istante in cui mia madre mi partorì con un rantolo,
Il Tempio di Efeso si infiammò.
Alte fiamme lo consumarono, senza che qualcuno potesse spiegarne l’incendio.
Ero nato.
E avevo già fame.
Ma non ero che un lattante.
Bisognava che attendessi
Attendere che il mio corpo prendesse forma,
Attendere che passassero gli anni.
Attendere che il più sapiente degli uomini mi insegnasse il suo sapere.
Attendere che sapessi recitare i nostri canti ancestrali,
Che sapessi battermi e correre,
riconoscere le piante e condurre gli uomini al combattimento,
Leggere sui visi dei cortigiani,
E desiderare una donna.
Attendere, sì,
ma mi sembrava interminabile.
La vita non cominciava mai.
Ho bruciato i tempi come nessuno l’aveva fatto prima,
Divorando libri e facendo esperienze.
E un giorno fui pronto.
Avevo venti anni e bei riccioli biondi,
La mia fame era cresciuta sempre più.
Mi veniva la schiuma alla bocca.
A venti anni finalmente iniziai a correre e non mi fermai più.
A venti anni, ho condotto il mio primo esercito.
Avevo bisogno di un nemico degno di me
Guardavo al di sopra del mare, verso le coste d’Asia,
E vidi Dario,
Il mio nemico,
La mia Fame,
Il mio desiderio.
Dario che io volevo sotto le mascelle,
Sotto gli zoccoli del mio cavallo.
Dario che era infinitamente più grande di me.
A Isso ci vedemmo per la prima volta.
A Isso, sì,
Se Filippo mi ha dato la vita,
È Dario che, per primo, mi ha dato la gloria.
E ho fatto costruire laggiù, sulla pianura dove ci battemmo, un tempio che porta questa iscrizione:
“Qui è nato Alessandro per la seconda volta, dalle lacrime di Dario sopra la terra d'Asia.”
Il combattimento fu immenso,
E ricordo la giovinezza del mio corpo.
Sì, a Isso, per la prima volta, ho cominciato a respirare come un titano.
E Dario è fuggito di fronte a me.
Il terrore lo afferrò.
Una sensazione incontenibile lo fece soffocare.
Non si trattava di vittoria o di sconfitta militare.
Non ero un nemico più fortunato o un più fine stratega.
No,
Ciò che vedeva di fronte a sé,
Era un'eclissi.
Un'eclissi totale che si abbatteva sul suo reame, sul suo nome e sulle migliaia di anni di regno della sua stirpe.
Ne fu atterrito.
Spronò il cavallo,
Abbandonando il suo esercito esangue ai nostri colpi furiosi,
Abbandonando sua madre, sua moglie e i suoi figli.
Fuggì, sì, di fronte al furore testardo della mia rabbia.
Per la prima volta, su quel campo di battaglia, i nostri sguardi si sono incrociati e Dario aveva letto la sua morte, nei miei occhi.
Oggi capisco il suo terrore.
Per Dario, avevo i lineamenti di un cadavere folle che ride nella mischia e che, senza mai togliergli gli occhi di dosso, mangia il cranio dei soldati nemici con un sorriso da assassino.
A Isso, ci siamo battuti.
A Isso, in quell'istante, le porte della Siria si sono aperte
E noi abbiamo baciato quella terra che capitolava sotto il martellamento dei nostri passi nella polvere del nostro desiderio.
La battaglia di Isso era vinta, Dario era in fuga e l’Asia Minore era mia,
III
La battaglia di Isso era vinta, Dario era in fuga e l’Asia Minore era mia,
Ma la mia posizione era fragile,
E ancora non avevo fatto niente, solo un’azione brillante.
Allora ho lavorato per la guerra.
E sono sceso su Tiro.
Abbiamo marciato sulla grande città chiacchierona dei Fenici,
Era ancora un nemico troppo potente per le nostre spade, ma avevamo gli occhi dei ragazzi e non esisteva città, regno, continente che non potessimo abbracciare con lo sguardo.
Finalmente ho visto il cuore dei Fenici.
Ho fatto inviare un messaggero per chiedere ai Fenici di arrendersi,
Ma hanno rifiutato,
Dicendo che per prendere Tiro bisognava essere marinai e che nessun uomo a cavallo, mai, gli avrebbe dato un ordine.
Nella loro follia avevano ragione.
Per prendere Tiro bisognava essere marinai e ho lavorato per diventarlo.
Ho fatto costruire immensi scheletri di legno,
Grandi scafi sagomati che i miei soldati levigavano giorno e notte con la pomice.
Ho fatto costruire una grande flotta.
Giorno e notte mi sono chiuso nella mia tenda per calcolare il ritmo delle maree e diventare un capitano.
L’assedio di Tiro durò sette mesi.
A questa battaglia, nessuno mi aveva preparato,
Né i consigli di mio padre, né i sudori di Isso.
ho dovuto imparare le regole da solo.
Ho ordinato ai miei soldati di deporre le spade e di afferrare dei massi a piene mani.
E sotto la pioggia continua delle frecce fenicie,
si è formata una lunga colonna,
che andava e veniva,
costruendo, passo passo, un molo che avrebbe legato la città al nostro appetito.
E ogni volta che un uomo cadeva, un altro lo rimpiazzava.
Il molo avanzava lentamente,
Il sangue dei miei uomini scorreva
Ma io non volevo rinunciare.
E i Fenici, dall’alto della loro muraglia, hanno iniziato a impallidire davanti a quel ponte di pietra e di corpi che non cessava di crescere e che presto ci avrebbe permesso di avventarci su di loro.
Anche le mie navi ho lanciato all’abbordaggio della città isola.
I Fenici erano numerosissimi,
Conoscevano mille modi di distruggere una nave.
Hanno tirato su di noi strali di fuoco, tentando di incendiare le nostre navi.
Hanno catapultato immense masse rocciose che, più di una volta, hanno sventrato gli scafi delle navi e fatto scomparire gli uomini tra grossi ribollire di spuma.
Di notte, nuotatori silenziosi hanno tagliato le corde delle ancore.
E quando l’equipaggio, tutto a un tratto, scoprì che la nave si era mossa, era troppo tardi,
Il vento la scagliava contro lo scafo di un’altra,
Aggrovigliando corde e remi come grossi insetti stupidi presi nella stessa tela di ragno.
Sette mesi di battaglia perché finalmente le mura di Tiro si sbriciolassero.
Sette mesi di strangolamento per riuscire alla fine ad asfissiare il grande corpo fenicio.
Poi Tiro cadde e per la prima volta, dopo sette mesi,
nessuna freccia sibilò nel cielo.
Ricordo quella donna che ho incrociato il giorno in cui a grandi passi misuravo le vie incenerite della città.
Quando mi riconobbe,
Camminò dritto verso di me.
Feci cenno alle mie guardie del corpo di lasciarla venire
era bella,
quando mi fu proprio di fronte,
mi colpì il petto, dicendo parole che non capivo.
Restai interdetto di fronte alla sua collera
Potevo ucciderla.
Lo sapeva e, ciò nonostante, osava offendermi.
I suoi colpi
facevano risuonare la mia armatura,
Scossero la mia anima più della catapulta di Tiro
Quella donna, che non dimenticherà mai il mio viso, quella donna per la quale
rappresento la morte arrogante,
mi ossessiona.
Siamo sempre l’uno per l’altra il volto nero della morte.
IV
So cosa pensi.
Ascolti il mio racconto e trovi solo sangue e vanità.
Sono stato solo un conquistatore assassino? è questo che pensi.
Uno di quei grandi capi che sollevano un popolo per massacrarne un altro.
il Limbo sul quale regni è pieno di uomini simili,
che per conquistare la gloria, hanno bruciato il mondo.
Ho sottomesso popoli e incendiato città.
Ho condotto alla morte quelli che mi amavano e si fidavano di me.
Però non ho fatto solo questo.
sbagli.
Vincere battaglie e sottomettere il nemico per me erano ambizioni troppo misere.
Volevo di più.
Dopo Tiro, ho voluto che il mondo sapesse che non ero solo un flagello.
Scendemmo in Egitto, fino a raggiungere il delta del grande Nilo.
E dovunque fummo accolti come dei.
È su queste terre che scelsi di gettare le fondamenta della mia città,
Alessandria.
Alessandria, per offrire agli dei, ai quali avevo strappato Tiro, una città principesca,
Alessandria, che avrebbe potuto testimoniare al mondo che non ero solo un capo militare,
Ma anche l’architetto di un futuro continente.
Ho disegnato io stesso la pianta della città.
Un faro immenso che potesse vedersi fino a Creta.
La più grande di tutte le biblioteche.
Volevo migliaia di opere,
volevo che tutto quel che l’uomo conosceva fosse al sicuro tra queste mura.
E un cimitero,
perché non ti ho mai dimenticato.
Non volevo un piccolo cimitero cittadino dove le tombe si accavallassero,
Uno di quei cimiteri che si tengono nascosti e che sembrano una prigione per cadaveri. No.
Sapevo quanti uomini erano morti per colpa mia,
Conosco il loro numero
Allora ho ordinato che si edificasse la città dei morti.
A sud di Alessandria,
in pieno deserto,
su una collina che domina i flutti calmi del Nilo,
una vera città,
con mura, pesanti porte e alte torri di vedetta,
una città che veniva costruita contemporaneamente a Alessandria.
Stesso intrico di viuzze,
stesso labirinto di marmo,
ma vuota.
Una città sacra, immersa nel silenzio dell’Egitto,
una città per accogliere le migliaia di uomini, morti all’epoca delle mie battaglie,
Greci, fenici o persiani,
Tutti cadaveri.
E tu devi aver sentito parlare di questa città che ho fatto per te
E che nessun essere umano può avvicinare.
Gli uomini hanno iniziato a venerarmi.
Io invece, nell'oscurità della notte egiziana,
Ho iniziato a insultarmi,
La vedova fenicia mi aveva buttato a terra.
In Egitto, ho preso in odio me stesso
E, per non morire asfissiato nel mio stesso sputo,
Ho deciso di partire.
Un mattino,
Mentre i miei dormivano, sono uscito dalla città
e, senza armi, senza scorta,
ho camminato verso occidente, addentrandomi in pieno deserto.
Ero come una stupida capra che continua a belare nell'infinita solitudine.
Ma gli dei non vollero la mia morte.
Forse sei proprio tu che non l'hai voluta.
Troppo avido delle migliaia di ombre che non avrei mancato di portarti
se avessi continuato a vivere.
Allora gli dei mi salvarono.
Il secondo giorno, mentre ero in ginocchio, esausto, il viso coperto di ustioni,
In pieno deserto, si mise a piovere.
La sabbia era così calda per tanti secoli di sole,
che un'immensa nuvola di vapore si formò quando
la pioggia cadde a terra,
rinfrescando il mio corpo
Il terzo giorno,
tracce di passi mi apparvero davanti, sulla sabbia.
Erano le tracce di un felino.
Un grande leone o una tigre invisibile che camminava davanti a me.
Non ho fatto che seguire questa guida insperata.
Allora sì, sono arrivato a Siwah.
Ero andato nel deserto come un alienato che cerca la ferita portando sul volto il lutto della Fenicia di Tiro come un sudario.
Dovevo morire di fatica nel deserto di Siwah,
come un cane randagio,
e nessuno avrebbe neppure ritrovato le mie ossa per farne una sepoltura,
ma le tue porte per me sono rimaste chiuse.
Ritornando dal tempio, sulla strada per Alessandria, mi sono inginocchiato sulla sabbia e ho scritto:
“Qui è nato per la terza volta Alessandro, che voleva morire, ma che gli dei salvarono”.
La sabbia, probabilmente, ha spazzato via le parole,
Ma il vento di Siwah le ricorda.
V
Ora la camera è più buia.
Mi sembra di non sentire più, dietro la porta, i mormorii di coloro che aspettano la mia morte per poter piangere.
Presto non sarò più niente,
Neppure un uomo,
Solo il ricordo sfumato di una vita.
Sì, devo essere molto malato.
Bisogna stare attenti che le lenzuola non prendano fuoco.
Devo resistere.
La malattia non mi piegherà.
Mi ucciderà, sì, lo sento, ma senza farmi vacillare.
Lupe mi leccano i piedi.
Bisce mi scivolano lungo i fianchi.
Sono in preda alla follia.
Colori violenti si riversano nel mio spirito come pioggia di un temporale multicolore.
Solo il tuo viso resta torbido.
Non vuoi che ti veda?
So chi sei.
So chi sei,
mentre tu provi a scandagliare la mia anima e non ci riesci.
Incapace di dire chi sono.
Uomo o bestia,
Folle o semidio.
Incapace di misurare la mia anima.
Ti perderai come mi sono perso io
E questo turbamento, almeno, ci unirà.
Inutile cercare con gli occhi, nelle sale dove ammassi le anime, un’ombra alla quale paragonarmi.
Io sono il più grande e il più miserabile.
Il mio valore è immenso e la mia colpa è un pozzo senza fondo che inghiottirebbe qualunque uomo vi si sporgesse.
Sì, sono il Greco, il barbaro,
sono il compagno e l’assassino.
Ho amato la poesia e le orge.
Ho contemplato la bella architettura di una città prima di ordinare senza battere ciglio che fosse rasa al suolo.
Sono il predatore di tre continenti
e il più umile degli uomini.
(avanti sx)
Adesso devo parlare di quel mattino a Tapsaco.
Avevo radunato tutto il mio esercito e marciavamo verso oriente.
A Tapsaco, sulle rive dell’Eufrate, abbiamo piantato il nostro accampamento.
Gli uomini e le bestie si riposavano.
Dovevo trovare un modo per attraversare il vasto fiume achemenide.
Era il mattino del sesto giorno di riposo.
Mi sono alzato prima del sole.
Senza svegliare nessuno, intrufolandomi tra le tende,
ho raggiunto Bucefalo,
l’ho sellato e sono partito verso gli argini del fiume.
Faceva ancora fresco.
Tutto dormiva in un silenzio da sogno.
Neppure il gorgoglio dell’acqua che la bruma sembrava soffocare.
Contemplavo quel grande fiume barbaro, la riva nemica, laggiù, al di là del corso d’acqua insuperabile,
È lì che la vidi, ad un centinaio di passi davanti a me, mentre avanzava con cautela tra le alte canne del fiume, Una tigre blu.
All’inizio pensai di essere vittima di un’allucinazione,
Ma si fermò su un terrapieno e ebbi tutta la libertà per osservarla.
Era la tigre blu dell’Eufrate,
Felino maestoso dal pellame di lapislazzuli.
Non potevo toglierle gli occhi da dosso.
Il suo manto aveva l’inverosimile sfavillio delle pietre preziose.
Restai interdetto, senza paura, ma colto di sorpresa, incapace di fare qualcosa.
Fu allora che girò la testa e mi vide.
Ci contemplammo così, tra le brume striscianti dell’Eufrate, silenziosi e immobili come statue persiane.
E lentamente, con cautela, riprese il suo cammino.
Io la seguii al passo.
Pensavo che sarebbe fuggita, che sarebbe balzata via, invece no.
Sempre alla stessa andatura, si addentrò nelle acque dell’Eufrate.
Sembrava quasi che mi avesse dimenticato.
La vidi affondare nel fiume e pensai che sarebbe scomparsa,
che fosse una creatura delle acque,
Ma non si immerse, non nuotò neppure,
camminava con calma.
La seguii.
Eravamo a una decina di passi l’uno dall’altra.
Non sembrava affatto spaventata.
A volte si girava, come per controllare che fossi proprio dietro di lei.
Avanzavamo così e non potevo staccare gli occhi da questa guida magnifica,
Blu come le collane delle donne trace,
Blu come le acque profonde del mare Egeo,
Blu come il mio desiderio e l’eternità.
La seguii. Mi fece attraversare l’Eufrate.
E quando arrivammo sull’altra riva,
quando Bucefalo ebbe posato il suo ultimo zoccolo sulla terra ferma,
ruggì come un titano.
Le sue zanne erano coltelli d’oro.
Pensai che stesse per avventarsi su di me.
Mi osservò un’ultima volta,
E scattò a una velocità incredibile dritto davanti a noi.
Dritto verso oriente,
Scomparendo fra l’erba e le felci.
Quel mattino, ho smesso di essere un conquistatore stupido,
Ho capito che era stata la tigre, sicuramente, ad avermi guidato nel deserto di Siwah.
Per la prima volta, la terra mi sembrò un regno alla mia portata,
Un regno che dovevo misurare a grandi passi fino ai suoi confini.
La tigre blu dell’Eufrate ha creato in me una fame infinita.
Un appetito da bestia, che niente placa.
Dentro di me era nato il desiderio di scagliarmi d’ora in poi verso oriente,
Raggiungere Dario.
Ascoltare la profezia di Siwah.
Mangiare quegli stadi di terra che mi separavano ancora dai confini del mondo.
Accettare la tigre blu come la sola guida della mia vita.
Quel giorno, seppi misteriosamente che l’Oriente mi avrebbe segnato con la sua impronta sacra.
Capii di essere un re insaziabile,
che la fame mi divorava il sangue,
fame di terra, di folla, di rapidità
fame non quietata fino alla morte.
Al mio ritorno, quando riattraversai l’Eufrate,
gli uccelli erano svegli, la bruma si era dileguata, e uno schiamazzo veniva dalla vegetazione bagnata dall’acqua.
Raggiunsi il campo e non parlai a nessuno della tigre blu dell’Eufrate.
Da allora non mi ha mai lasciato.
Non c’è stato un istante, in tutte le battaglie che seguirono, in cui non abbia pensato di vederla all’orizzonte.
È lei, da quel giorno, è lei che mi guida sulle strade sconosciute.
Sempre verso oriente.
Come un’amante.
Quel mattino, sulla riva occidentale dell’Eufrate,
Quel mattino, giurai di non interrompere mai la corsa,
di andare dritto avanti, verso oriente,
e di fermarmi solo sulle rive del Gange.
In quell’ultimo paese prima dei confini del mondo
dove le donne hanno tre occhi
E dove gli uomini s’inginocchiano davanti alle vacche.
VI
Avevamo attraversato l’Eufrate, dopo traversammo il suo gemello millenario, il Tigri.
Non era ancora finita con Dario.
Fu a Gaugamela che i nostri eserciti si scontrarono,
Come le teste di due tori colossi
le cui corna, fanno un rumore sordo di armi di legno.
A Gaugamela, i morti furono numerosi.
A Gaugamela, tutto poteva finire.
Dario sapeva con chi aveva a che fare.
Sapeva che quel ragazzo poteva sconfiggerlo e aveva paura.
Allora preparò la sua battaglia e venne personalmente sul campo.
Sì, Gaugamela fu il paese del nostro grande faccia a faccia.
Quel giorno la terra rischiò di spezzarsi sotto il peso titanico degli elefanti da guerra dell’esercito persiano, che caricavano con barriti di rabbia e che niente sembrava potesse fermare.
Sui suoi carri Dario aveva fatto sistemare grandi falci,
che quando caricavano nella mischia
tagliavano le gambe ai miei soldati,
mozzavano i garretti dei cavalli,
rovesciavano i carri.
Tutto il mio esercito divenne livido
Ci volle tutta la forza della mia voce per riunire i miei uomini e impedir loro di fuggire.
Soprattutto gli elefanti atterrirono i miei uomini, mai visto niente di così potente.
Capii che la battaglia si stava giocando in quel momento.
Se, per il panico, i ranghi si fossero sciolti,
saremmo stati massacrati dalle zanne di quegli elefanti assassini.
Presi un arco e con uno strale trapassai la gola del cornac che dirigeva il suo animale verso di noi.
L’uomo, appollaiato in cima alla bestia,
cadde a terra.
L’elefante, smarrito, non ricevendo più alcun ordine dal suo cervello umano, intuendo
confusamente che quel piccolo uomo che aveva visto cadere e che aveva appena smembrato sotto le zampe potenti, era il suo padrone,
l’elefante, per lo sgomento, si mise a barrire e divenne folle,
scosse la proboscide, si girò,
e caricò a caso.
Nessuno poteva più controllarlo.
Con tutta la sua furia impediva la marcia dell’esercito di Dario.
I miei uomini avevano visto tutto.
Capirono quel che si doveva fare.
Ogni arciere, allora, mirava agli uomini appollaiati sui loro troni di carne.
I cornac non portavano armature perché non pensavano di dover prendere parte al combattimento, e cadevano tutti, come uomini gettati dall’alto di una muraglia.
I mastodonti persiani presto furono presi tutti dal panico.
Caricavano disordinatamente,
Solo i cavalieri sciiti non cedettero al panico.
Impassibili, contemplavano lo spettacolo orrendo di un esercito che si mutila da solo.
Guardavano quegli uomini mezzo calpestati che continuavano a urlare.
Contemplarono il grande campo di Gaugamela e seppero che Dario aveva perduto.
Ma è in quell'istante che si decisero a caricare,
perché non si dicesse che l'esercito persiano si era stritolato sotto il suo stesso peso,
perché ci fosse un combattimento e a loro volta sanguinassero i Greci,
perché Gaugamela fosse per sempre, per noi come per loro,
il ricordo dei nostri più grandi dolori.
Sì, i cavalieri corazzati Sciiti caricarono,
Sollevando sotto i loro zoccoli tutta la rabbia del vento delle steppe dell'Asia centrale
numerose sono le madri e le mogli che oggi piangono vittime degli Sciiti,
piangono quelle migliaia di uomini che quando ce ne siamo andati giacevano ancora nel fango
caldo di Gaugamela,
Il cranio aperto, l'elmo spaccato,
Il corpo smembrato sotto il peso di un cavallo accasciato,
Il volto inorridito e gli occhi grandi aperti su quei paesi strani che non vedranno mai.
I cavalieri sciiti si sono battuti, sì,
Ma Dario, già non ci credeva più.
E aveva ragione.
Senza voltarsi verso i grandi Sciiti che ancora si battevano
Spronò i fianchi del suo cavallo e prese la fuga.
Era la seconda volta che Dario, davanti a me, abbandonava il campo di battaglia.
Mi sono lanciato al suo inseguimento.
Mai la terra, sotto gli zoccoli di Bucefalo, sfilò così veloce.
Ormai sentivo solo il martellamento poderoso del suo galoppo,
Ma Dario, lui, non aveva preso parte al combattimento e la sua cavalcatura non era provata dalla lotta.
Mi distanziò senza difficoltà,
E per la seconda volta, nelle pianure della Mesopotamia,
Dovetti lasciare che si dileguasse.
Al mio ritorno sul campo di battaglia,
erano solo cavalli sventrati,
Elefanti rovesciati, teste spaccate,
Persiani crivellati di frecce,
Greci smembrati dalla falce dei carri,
Vinta la battaglia di Gaugamela,
mi rimaneva solo di andare a sud e prendere Babilonia,
senza contrasti e combattimenti,
Sì, ero a Babilonia,
e, per la prima volta dalla partenza da Alessandria,
discesi da cavallo e mi passai sul viso un po' d'acqua per cancellare il sudore e il sangue.
VII (centrale dietro)
Nel palazzo di Babilonia, ho cominciato a conoscere Dario.
Ho dormito nel suo letto, ho indossato le sue tuniche d’oro,
e il luogo, dolcemente, ci ha resi gemelli,
innamorati delle stesse pietre,
della stessa luce della Mesopotamia,
godendo dello stesso lusso,
bevendo, nei bagni caldi profumati di mandorle e ambrosia,
lo stesso latte di cammella.
Poco a poco, ho compreso chi era,
e mi sono fatto a sua immagine,
ho cominciato ad amarlo.
ho ammirato la bellezza delle donne delle quali si era circondato,
il lusso dei mobili e dei tappeti,
ho sentito che egli era giusto nel suo sguardo,
e l’ho amato,
come un fratello esiliato.
Nel segreto del mio spirito, era mio ospite.
L’ho invitato nel suo palazzo,
discutevamo per ore ed ore assieme,
gli domandavo il suo parere sui cambiamenti che avevo fatto a Babilonia,
lo ascoltavo vantarsi della forza delle sue truppe,
possedevo Babilonia e Dario non cessava di abitarmi.
A Babilonia, soprattutto, scoprii i grandi affreschi della porta
d’Ishtar.
Una successione di animali sacri che sembravano vegliare sulla
città con l’immobilità dei secoli.
È lì che la scoprii.
In mezzo ai dragoni, ai leoni e ai tori alati,
come se mi aspettasse,
lì, sulle mura di Babilonia,
la tigre blu dell’Eufrate.
Caddi in ginocchio.
Dunque non ero il solo ad averla vista.
Altri, prima di me, avevano incrociato l’animale sacro.
Questa città onorava, da secoli, la tigre del mio desiderio.
Iniziai ad amare questo popolo con passione.
Conosci un altro uomo che abbia amato il suo nemico come
io ho amato Dario?
Esiste un solo conquistatore al quale vuoi paragonarmi, che sposasse il popolo che aveva appena sconfitto?
Un giorno, un esploratore macedone che avevo inviato a Ecbatane ritornò,
ansimante, senza fiato per la polvere,
e mi annunciò che Dario, durante la fuga, era stato fatto prigioniero,
che era l'ostaggio di Satibarzane, Barsaente e Besso,
tre suoi antichi satrapi che, vedendo in lui un padrone sconfitto, avevano scelto di farne la loro moneta di scambio.
Dario, prigioniero di tre ratti.
Dario, l'uomo che aveva costruito il palazzo nel quale vivevo,
Dario, con il quale mi intrattenevo ogni sera, nell'alcova dei miei sogni,
Dario, trascinato in catene di accampamento in accampamento,
come un animale da fiera.
Fu come se il messaggero avesse con un morso affondato tutti i denti nel mio cuore.
Soffocavo dalla vergogna e dall'ira,
E capii,
Sì, capii che quel morso era quello della tigre blu dell'Eufrate,
Che sopra le lastre del palazzo di Babilonia,
In mezzo ai palmeti e ai vapori dei bagni,
Mi ero addormentato.
La tigre blu era qui a richiamarmi all'ordine.
Non avevo fatto che dormire.
Dimenticato Dario, preso alla gola da tre cani fra le montagne dell'Iran.
Avevo dimenticato il martellamento degli zoccoli al galoppo e la sete di terra.
Avevo dimenticato che non avevo ancora visto i confini del mondo.
Sì, sono un uomo,
soggetto, anch'io, alla pigrizia e al piacere.
sono un uomo, perché nessun dio avrebbe potuto dimenticarsi così la sua fame.
In poco tempo riunii l'esercito.
E partimmo.
Alla testa del mio esercito, sulla strada per Ecbatane, sentii che solo così ero Alessandro,
a cavallo,
che durante tutte quelle giornate d'oblio voluttuoso,
non ero stato che un piccolo uomo sazio,
un re-tiranno che merita solo la spada di un complotto nei fianchi,
sulla strada per Ecbatane,
avanzando di nuovo verso oriente,
fui felice,
Erano tre, i cani puzzolenti.
Satibarzane, Barsente e Besso,
che portavano via con sé, nei loro regni barbari, il mio fratello babilonese.
Non tardarono a venire a sapere che ero alle loro calcagna e cominciarono a tremare.
Sì, marciavo su di loro,
Volevo Dario.
volevo la testa dei suoi tre carcerieri.
volevo, ancora di più, l'infinito possesso di quei paesi a venire.
I traditori si organizzarono.
Mentre Barsente e Besso proseguivano ancora oltre verso oriente, con il loro prigioniero sacro,
Satibarzane si fermò.
Era arrivato sulle sue terre, in Asia.
Radunò i suoi uomini nella capitale, Herat, e attese il nostro arrivo.
Di Herat e di Satibarzane ne facemmo un solo boccone.
Poi toccò a Barsente di fermarsi e morire.
Calammo su Kandahar un tardo pomeriggio.
Alla nostra carica furiosa, poterono opporre solo sospiri di vinti.
Anche allora non ci volle molto a radere al suolo la città, né a uccidere Barsente.
Restava solo Besso.
I miei uomini erano sfiniti.
Gli sarebbe piaciuto fermarsi, aspettare i rinforzi, far pascolare i cavalli e concedersi il tempo di
mangiare,
Ma non avevamo ancora Besso, e Dario era nelle sue mani.
Fu allora che cominciammo la grande marcia su Samarcanda,
Attraverso le alte montagne del Caucaso Indiano,
Attraverso la Battriana e la Sogdiana.
Ignoravamo tutto di quelle terre immense.
Eravamo una piccola colonna testarda che si scagliava sulla scia di Besso.
Quanti dei miei sono morti, tra Kabul e Zariaspa,
Nella traversata avida delle alte cime caucasiche?
Non eravamo preparati né al freddo né alle insidie
Degli uomini regolarmente cadevano dalla cavalcatura, andavano giù con tutto il peso e si
laceravano sulle rocce.
Da Kabul a Zariaspa perdetti un terzo dei miei uomini,
E tu te li sei dovuti veder arrivare come ombre gelate, immobili,
sui loro cavalli, senza fiato,
Il volto duro come ghiaccio, senza espressione,
La schiena curva per la stanchezza
E gli occhi screpolati.
Le hai potute contare, quelle migliaia di uomini per i quali le montagne del Caucaso indiano furono
una tomba a picco.
E ti devono aver parlato del dolore che faceva morire laggiù, così lontano dalla Macedonia, così
lontano da Alessandria e da Babilonia,
E così vicino alla meta.
Besso finì per capire che non sarebbe mai riuscito a seminarmi,
E si rassegnò ad affrontarmi.
A Samarcanda riunì tutti i suoi fedeli, costruì delle enormi barricate di fortuna e mi aspettò.
Besso, cinghiale furioso che non seppe sottomettersi,
Besso che macchiò la terra con il sangue solare di mio fratello.
Mi ricordo di Samarcanda,
Bella città di luce e brina,
Besso, allertato dalle sue guardie, venne di persona sulle sue muraglie a vedere il viso di chi lo
inseguiva da così tanto tempo.
Mi chiamò e io mi avvicinai.
Quando fui ai piedi delle mura, si mise a ridere
E, con un gesto, sgozzò un uomo che era al suo fianco, poi lo spinse da sopra la muraglia.
Rivedo la lenta caduta inerte del corpo,
Come un pacco di tessuto disarticolato.
Rivedo quell'aquila senza ali urtare il suolo in un rumore sordo di morte.
Era Dario, la gola tagliata, il collo spezzato,
Era Dario il Grande Re della porta di Isthar
Che giaceva là, ai miei piedi, le guance scavate, gli occhi cerchiati di tristezza e noia.
Se fui un mostro, lo fui quel giorno.
Passai in rivista i miei soldati, senza dirgli una parola, ma con lo sguardo gli trasmettevo la furia del
mio sangue.
E quando finalmente sentii tutto il mio esercito elettrizzato dall'odio,
quando sentii i cavalli impazienti di caricare,
Allora abbassai il braccio e ci avventammo su quel cane di Besso.
Nessuna tregua, nessuna pietà.
Ero una spada e la mandibola insanguinata di una tigre.
Dovunque con lo sguardo cercavo il mio nemico.
Finalmente avevo Besso tra le mani.
Da Babilonia a Samarcanda, dalle cime caucasiche alle rive dell'Oxus, non avevo pensato che a
questo.
Per lui il castigo dei barbari.
Con le mie stesse mani, gli tagliai le orecchie, il naso e la lingua,
Poi, mentre lanciava gemiti raccapriccianti,
con la bocca annegata nel sangue,
mezzi urli, mezze suppliche,
Gli sezionai le mani.
Perché non morisse subito per l'emorragia, gli feci cauterizzare le ferite con un ferro rovente.
Besso era là, ai miei piedi,
Il viso di un mostro, coperto di piaghe,
Gli feci attaccare alla schiena il corpo del suo compare Barsente.
Lunghe e poderose corde legavano adesso la piaga e lo scheletro,
E questo mostro a due dorsi puzzava insieme di carne bruciata e di carogna.
È così che ho lasciato errare Besso per le alte terre di Samarcanda
(spostare leggio centro avanti)
VIII
Adesso, sì, impazzisco.
La febbre mi eccita i sensi.
La febbre libera gli odori e i suoni di cui il mio corpo si è impregnato
Durante tutti gli anni di viaggio.
Brucio.
È come se la mia carne fosse d’incenso
Un vecchio brahmano ride di fronte a me.
Non ha più denti.
Alla sua barba millenaria sono aggrappate piccole scimmie impaurite.
Sono senza forze.
Vorrei inginocchiarmi davanti a lui,
Ma non posso.
Alessandro brucia, ma non indietreggia.
Rifiuti ancora di mostrarmi il tuo viso.
È necessario che muoia per vederti?
Sì,
Tu non cedi.
Mi tratti come gli altri,
Eppure ascolti il mio racconto.
Prendi quello che ti dono e non offri niente in cambio.
Mi disprezzi.
Credi che io sia debole e sul punto di rinunciare.
Mi vedi livido e vacillante.
Fa' attenzione.
Ho ancora la forza di dare ordini.
Posso ordinare che il mio esercito si immoli assieme a me,
come facevano i Grandi Re di Persia,
e mi sarà obbedito.
Trema, allora, per quello che farò nella tua casa.
Io sono Alessandro
E posso discendere nel tuo paese di zolfo con tutto il mio
esercito armato fino ai denti.
Mi circonderò della cavalleria persiana
e degli arcieri,
metterò il diadema di Dario e porterò il gladio di mio padre.
Cavalcherò la tigre blu dell’Eufrate.
Discenderò da te, come sono disceso nella pianura di Gaugamela.
Quando ordinerò alla mia cavalleria di caricare,
niente potrà fermarci.
Rovesceremo le urne,
Spezzeremo gli scheletri,
E la folla sbalordita dei tuoi morti fuggirà da ogni parte,
Sì, penetreremo nell'Ade da barbari a cavallo
E le nostre grida risuoneranno nell'immensità stupefacente del tuo regno,
Tra questa folla di ombre ci apriremo una strada,
Perché la terra tremi perfino nella tua casa.
Che anche tu conosca l'angoscia di Dario.
il tuo regno è una tana senza uscita
Rovescerò il tuo trono sacro
Sì, posso decidere di fare di te la mia ultima conquista.
Che si sappia che Alessandro ha preso tutto,
Che regna ormai sulla terra di sotto.
E a ogni nuovo terremoto,
A ogni eruzione di vulcano,
Coloro che vivono diranno è Alessandro, giù, che allarga il suo regno.
Ti vedo.
Lentamente appari.
Qui, adesso, sotto i miei occhi,
Vedo il viso del re dei morti.
Come sei brutto,
Come sei vecchio,
Finalmente ti presenti a me.
Hai paura?
No,
Ti racconterò tutto.
Alessandro e Ade si sono incontrati.
(spostare leggio centro avanti)
IX (avanti sx)
Abbiamo lasciato Samarcanda e abbiamo ripreso la nostra strada inflessibile verso oriente,
sempre verso oriente,
sempre alla ricerca dei confini del mondo.
Non ti stupire se la mia voce si rompe e mi tremano le labbra
ora affronto il tizzone dei ricordi
fino alla mia morte, questo ferro rosso brucerà la mia memoria.
Andavamo dritto verso il Gange,
pensavo che potesse essere il fiume frontiera della terra
e volevo controllare con i miei stessi occhi.
Arrivammo sulle rive dell’Ifasi,
piccolo confluente dell’Indo.
L’Ifasi non poneva alcuna difficoltà.
Avevamo attraversato l’Eufrate e l’Oxus
Quel fiume per i nostri elefanti era un torrente che potevano scavalcare.
Eppure, arrivato sulle rive di quel piccolo confluente, tutto il mio esercito si immobilizzò.
Cupo e silenzioso.
Tornai sui miei passi e contemplai il viso dei miei fratelli.
Compresi subito cosa stava accadendo.
Riconobbi lo sfinimento e il desiderio oscuro di posare i piedi a terra.
Vidi la ferma determinazione dei visi.
Non un soldato si era mosso, non uno aveva parlato.
Chiesi cosa si aspettassero da me,
nessuna risposta.
Se volevano fermarsi così vicino alla meta, dopo Babilonia, Samarcanda e Sangala,
nessuna risposta.
Parlai della grande storia che costruivamo,
della cavalcata mitica che sarebbe rimasta per sempre nella memoria degli uomini come il primo solco su un campo vergine.
Nessuna risposta.
È lì che vidi certi soldati scostarsi e lasciar passare un uomo.
Gli chiesi di dire il proprio nome.
Era Koinos.
Non l’avevo riconosciuto.
Avanzò verso di me e mi ricordo ognuna delle sue parole:
“Alessandro, ti abbiamo seguito dovunque.
E qui dove ci conducesti, nessun altro all'infuori di te ci avrebbe potuto condurre.
Oggi siamo sfiniti.
Abbiano messo così tante terre tra noi e la nostra Grecia che nessuno può sapere se moriremo
di vecchiaia o di sfinimento prima di rivederne il suolo.
Potrei dirti, Alessandro,
Che voglio rivedere mia moglie e i miei figli,
Ma non è questo.
Probabilmente mia moglie è sposata con un altro uomo,
I miei figli erano così piccoli quando sono partito
Che non si ricorderanno di me.
Lo so bene.
L'ho accettato da tanto tempo.
Ma oggi, Alessandro, non è su mia moglie o sui mie figli che piango,
È sulla mia terra,
Sulla dolcezza della Grecia,
Sono vecchio, Alessandro.
Ed è sulla mia terra che vorrei morire.
Alessandro, ascoltami, Sono Koinos, mi inginocchio e
Ti chiedo una tomba in terra ellenica per il mio vecchio corpo.”
Ricordo ancora le sue parole.
Tutti mi guardavano e mi sono messo a piangere.
Giurai a Koinos che sarebbe stato seppellito nella sua terra di Grecia,
Che avrebbe visto, prima della sua morte, la calma profonda del mar Egeo.
Gli ho giurato che l’avrei restituito ai suoi.
E i preparativi cominciarono.
Ci concedemmo ancora un giorno di pausa, sul bordo dell'Ifasi,
Perché i cavalli si riposassero
E gli uomini dormissero nella gioia.
Io non chiusi occhio per tutta quella ultima notte.
Mi recai un'ultima volta, sulle sponde dell'Ifasi,
Ho atteso la tigre blu dell'Eufrate,
L'ho cercata con lo sguardo sull'altra riva,
Mi struggevo dal desiderio che fosse là,
A indicarmi il cammino.
La tigre blu dell'Eufrate, che quel giorno, per la prima volta dopo Babilonia, avrei smesso di seguire.
Ora che ci ripenso, nel silenzio dell'accampamento addormentato,
quel mattino, avrei dovuto attraversare, da solo, l'Ifasi e continuare la mia strada verso Oriente.
Avrei dovuto, perché il Gange non era più lontano e sono sicuro che la tigre blu mi avrebbe guidato.
Avrei dovuto abbandonare lì i miei uomini che lentamente sarebbero ritornati sui loro passi,
E addentrarmi, solo, nell'afa calda dell'India straniera.
Avrei dovuto, sì, perché, da allora, non ho fatto che morire.
X
Adesso muoio.
Le serve si sono messe a cantare.
Le senti anche tu come me?
Intonano il canto lento del trapasso.
Puzzo già?
Il grande corteo triste si muove.
È il tempo dello smembramento che comincia.
Si avventeranno tutti sull’impero come si saccheggia una casa.
Ma non c’è niente che possa essere rubato.
Non lascio alcuna eredità.
Chi potrà capirlo tra loro?
La sola cosa che sia davvero preziosa,
È il mio appetito
Ma nessuno di loro ne vorrà.
Sudo tutta l’acqua del mio corpo.
Mi sembra che le mie viscere siano di brace
E che presto non sarò che un pezzo di legno carbonizzato tra le lenzuola bianche del letto.
Alessandro sta morendo?
Sì, tocca a te invitarmi a trincare alla tua mensa.
In mezzo ai tuoi
nel tuo reame di trogloditi dove gli occhi non servono a niente,
tu inviti Alessandro
e Alessandro verrà.
Avvicinati,
Ho una supplica da farti.
Ti vedo sorridere.
Pensi di indovinare ciò che sto per chiederti.
Quello che chiedono tutti gli uomini.
Sottrarsi alla tua legge.
Conoscere l’immortalità.
Ti sbagli.
Non ho bisogno di te per essere immortale.
Ci ho già pensato io.
Gli uomini, per sempre, ricorderanno del mio nome.
Alessandro che morì all’età di un ragazzo,
dopo una vita di febbre e di conquiste.
Alessandro che unificò il mondo in un solo impero.
Cancellando le frontiere, mescolando il sangue dei popoli e l’architettura delle città.
Alessandro che fece restringere la terra sotto i suoi passi.
Non è questo che voglio da te.
Ascoltami bene.
Alessandro si prosterna ai tuoi piedi e ti chiede soltanto di portarlo via tutto intero.
Che non resti niente in questa camera oltre l’odore dell’incenso che finisce di consumarsi.
Non voglio lasciare niente.
Che non ci sia un corpo da imbalsamare,
nessun cadavere da esporre alla folla.
Non voglio tombe né templi.
I morti seppelliti sono prigionieri della terra.
Non mi condannare per l’eternità all’asfissia.
Che il corpo di Alessandro non possa mai essere trovato.
Acconsenti?
Sì, mi sembra di vedere la tua testa chinarsi lentamente.
Ma non ne sono sicuro.
Tutto si confonde di nuovo.
È tempo di morire,
lo sento.
Non indietreggerò.
Sai chi sono,
mi riconoscerai nella mia nudità.
Abbi pietà di me,
ora muoio,
e potrai stringermi nella tua mano di giudice infallibile.
Muoio da solo,
in questo fuoco che mi divora,
senza spada, né cavallo,
senza amici, né battaglia,
e ti chiedo di avere pietà di me,
perché sono colui che non si è mai saziato,
sono l’uomo che non possiede niente
solo un ricordo di conquiste.
Sono l’uomo che ha misurato la terra intera
senza mai riuscire a fermarsi.
Sono colui che non ha osato seguire fino alla fine la tigre blu dell’Eufrate.
Ho fallito.
L’ho lasciata scomparire lontano
e poi non ho fatto che agonizzare.
Nell’istante di morire,
piango su tutte le terre che non ho avuto tempo di vedere,
piango sul Gange lontano del mio desiderio,
non rimane più niente.
Malgrado i tesori di Babilonia,
malgrado tutte le vittorie,
mi presento a te, nudo come quando sono uscito da mia madre.
Piangi su di me, sull’uomo assetato.
Non correrò più,
non combatterò più,
presto sarò uno di quei milioni di ombre che si mischiano e si incrociano nei tuoi sotterranei senza luce.
Ma la mia anima, ancora a lungo, sarà scossa dal respiro del cavallo,
piangi su di me,
sono l’uomo che muore
e scompare con la sua sete.
fine